L’ultimo colpo sarà assestato da Fitch che boccerà il nostro debito pubblico. Il giochino sarà il solito, basta ricordare cosa è successo in passato. Aprile 2017, Padoan da Washington batte i pugni sul tavolo rivendicando la crescita del Paese, contestualmente Fitch declassa il debito italiano portandone il rating a “BBB” da “BBB+” giustificando il taglio per una storia fatta di “crescita economica debole“…”fallimento nell’abbassare il debito pubblico molto alto”… Paese “più esposto a choc potenziali avversi“. All’epoca c’erano anche “rischi politici” e “debolezza del settore bancario”, tanto è vero che venne stato pianificato un intervento pubblico su tre istituti di credito a partire dal dicembre 2016 (Mps, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca). Fitch non fu stata tenera, ma arrivò comunque con 4 anni di ritardo: “L’Italia non ha raggiunto ripetutamente i target legati al rapporto debito/Pil, che (siamo in aprile 2017) è salito del 9,5% nel 2016 al 132,6%. Si tratta di un dato che è l’11,2% più alto del programma di stabilità del 2013″, l’anno in cui l’agenzia di rating aveva bocciato il nostro Paese a “BBB+”. Quel dato, si leggeva nel rapporto, si confronta con un 41,5% della media dei Paesi con un rating pari a “BBB”. Fitch stimava che il debito pubblico italiano avrebbe raggiunto un picco al 132,7%del Pil nel 2017 scendendo “solo gradualmente” al 129,3% nel 2020.
Il Documento di economia e finanza (Def), approvato dal Consiglio dei ministri l’11 aprile 2017, stimava un debito/Pil al 132,5% nel 2017 e al 131% nel 2018. Il rapporto debito/Pil, secondo il ministro Tria, per quest’anno dovrebbe scendere dello 0,1% rispetto allo scorso anno: “Siamo sulla stabilizzazione, nell’anno in corso ci sarà una correzione di 0,1, adesso vediamo gli ultimi dati”.
Il preambolo è stato necessario per sottolineare che Fitch non è proprio il massimo dell’originalità. Le agenzie di rating intervengono sempre a ridosso delle crisi di governo. Le previsioni all’epoca di Standard & Poor’s per gli anni a venire (era luglio 2013) erano negative (ce ne siamo accorti!), soprattutto se ci fossimo azzardati a eliminare l’Imu come fu proposto da metà del governo e più volte promesso dal premier dell’epoca Enrico Letta. L’analisi dell’agenzia era un bollettino di guerra: “L’economia italiana si contrarrà quest’anno dell’1,9%”, il debito doveva salire ancora mentre il Pil pro capite per il 2013 doveva essere pari a 25 mila euro, “al di sotto dei livelli del 2007”. S&P senza alcun imbarazzo puntò il dito contro l’esecutivo, il cui “differente approccio” metteva a rischio “gli obiettivi di bilancio per l’anno corrente” (sempre il 2013). Il riferimento era chiaramente alla sospensione dell’Imu sulla prima casa, agli sconti per le aziende e al rinvio dell’aumento dell’Iva, misure che dovevano servire a riattivare un’economia in stato comatoso e a far ripartire i consumi delle famiglie.
La raccomandazione di S&P a chiosa del comunicato era di proseguire lungo la strada della diminuzione del deficit ma allo stesso tempo giustificando il downgrading con il crollo del Pil, causato proprio dalle politiche di austerity, una raccomandazione a dir poco contraddittoria, motivo per cui l’uscita dell’agenzia era già all’epoca da considerare il solito colpo sparato in aria. Non volendo criticare S&P in prima persona, Letta lasciò svolgere al ministro dell’Economia Saccomanni il ruolo dell’indignato: “La decisione appare basata sull’estrapolazione meccanica di dati e della situazione del passato” spiegava il titolare del Tesoro “con minima o nulla considerazione per le misure già prese o in corso di attuazione”. Era sempre il 2013 e Saccomanni giudicò in nome e per conto di Letta che le previsioni sul futuro sarebbero risultate poco attendibili, in quanto basate esclusivamente “sugli scenari peggiori”. Il ministro lanciò, poi, l’attacco finale sul ruolo stesso delle agenzie, che potrebbero facilitare “effetti prociclici e destabilizzanti”. Tradotto: potrebbero provocare una crisi del debito che in assenza di tali allarmismi non si verificherebbe mai.
Fitch (dopo tutto il polverone) arriva ultima. A gennaio 2017 Fitch, Moody’s e S&P, valutavano rispettivamente l’Italia BBB+, Baa2 e BBB-. A gennaio 2017, pesavano innanzitutto l‘incertezza sul futuro politico italiano dovuta alla vittoria del “No” al referendum costituzionale. Il giudizio apparve un assist a Matteo Renzi, anche se la qualità dell’agenzia non rendeva merito alle mire dell’ex premier. Sul downgrade di gennaio pesava “la persistente debolezza del sistema bancario, in un periodo di crescita fragile“. Il ministro Padoan replicò che il debito stava scendendo, definendo poi “inaccettabile” l’uso “del termine fallimento. L’orizzonte del governo è la scadenza naturale. Non c’è nulla di nuovo dal punto di vista economico”. In sostanza, il problema era strettamente legato ai contraccolpi finanziari del voto francese (che nella sostanza non ci sono stati) e di quello tedesco. Il giudizio di Fitch chiamava in causa l’instabilità della maggioranza parlamentare, dopo il referendum del 4 dicembre.
Il 31% del debito italiano con scadenza a breve termine è in mani straniere. Le questioni che solleveranno i Fondi di investimento americani sono tre (le solite): quanto dura questo governo? Quali sono i piani per accelerare il ritmo di crescita, che è al momento il più basso nella zona euro? Quanto è solido il sistema bancario? Le risposte spetteranno al primo ministro Conte, il punto cruciale per la Finanza rimane quello della solidità del sistema bancario ma su questo siamo tranquilli. Lo scorso anno Padoan rispose su questa obiezione: “Il sistema è sulla via di una ripresa costante”, suffragato dall’intervento di Visco: “Le sofferenze nette sono pari a 15-20 miliardi di euro. Non esiste un rischio sistemico, anche se le banche devono ancora lavorare per migliorare servizi e redditività”.
In conclusione, il sistema bancario è solidissimo, se consideriamo l’iniezione di liquidità fatta lo scorso anno (aumentando il deficit ovviamente). Allora non sarebbe “peccato” sospettare (confermando la sensazione) che siamo nel solito marasma di una serie di tentativi da parte della Finanza (più o meno qualificata) di incidere sulle decisioni politiche così come accade nel 2011. Moody’s ha già lanciato un messaggio chiaro di rispetto per una manovra sul filo del rasoio ma coraggiosa e affatto protesa verso mancette a fondo perduto. Per tutto il resto, si procede speditamente nel solito moderato disordine.
INTERRIS